16 settembre 2013

Sull'avarizia o Filarguria

continua dal post "Lussuria"



Prosegue il nostro esame delle 8 passioni maggiori o 7 vizi capitali. Abbiamo iniziato con una lunga serie dedicata alla gola, poi siamo passati alla superbia (orgoglio e vanità), abbiamo parlato della lussuria e ora esaminiamo l'avarizia o avidità.


Non si tratta in realtà soltanto dell'avarizia ma di ogni forma di attaccamento a un "avere", qualunque esso sia. San Giovanni Cassiano racconta la storia di un monaco che entrando in monastero aveva lasciato grandi beni e che, una volta entrato, divenne incapace di separarsi da una semplice "gomma"; era più forte di lui, non poteva imprestarla a nessuno.

L'esempio chiarifica quegli attaccamenti morbosi e irrazionali che si possono avere non soltanto nei confronti di un bene materiale, ma anche di un'idea, di un'abitudine. Vi è identificazione con ciò che si pensa, si fa e si possiede; perdere qualcosa è come perdere una parte di se stessi.

Una delle radici inconsce di questo comportamento si situerebbe allo stadio anale. Quando il bambino, identificandosi con il proprio corpo, prova qualche terrore vedendolo "decomporsi" sotto forma di materie fecali, se la madre non gli è accanto per rassicurarlo e ringraziarlo di "quel gentile regalo", potrà provarne un certo timore che lo porterà a chiudere gli sfinteri o, al contrario, a voltolarsi nei suoi escrementi. L'educazione alla pulizia non è cosa facile e ogni uomo conserva nel suo inconscio delle tracce più o meno dolorose di quell'epoca della sua vita; esse si manifesteranno sotto forma di ossessione verso il corpo, di tensione, di stitichezza,
e, a livello psicologico, di contrazioni patologiche su possessi accumulati. 

Gli antichi sembrano aver penetrato la radice inconscia di tutto questo quando chiedono ai loro monaci di"meditare sulla morte" e di prendere coscienza che "tutto ciò che è composto andrà un giorno in decomposizione" per diventare così liberi da ogni possesso terreno.

Essere avaro, accumulare ricchezze, tenere per sé, significa conservare il vapore sul vetro della nostra esistenza: tutto questo non tarderà a svanire; ciò che conta è cogliere il carattere mortale di tutte le forme, ma anche il valore eterno di ciò che rimane, dell'Increato che ci abita. Per gli antichi si tratta di scoprire ciò che per l'uomo ha veramente valore. "Lasciare l'incerto per il certo", "vendere tutto ciò che si possiede per acquistare la perla preziosa" 
(Matteo 13:46)
A questo proposito, nel vangelo non mancano le parabole: "Là dov'è il tuo tesoro sarà anche il tuo cuore". (Matteo 6:21)

Questo tesoro è transpersonale. E' la vita divina in ognuno di noi. E' l'amore, questo tesoro che paradossalmente "si moltiplica nella misura in cui lo spendiamo". 

Così per i Padri della chiesa l'avarizia è una grave malattia, nel senso che impedisce in noi la sanità del cuore, ossia la generosità, la comunione e l'apertura alla vita. L'avarizia mantiene in noi la paura di amare. La "filarguria" ci priva del piacere di partecipare alla generosità e alla gratuità (grazia) divina, perché "c'è più gioia nel dare che nel ricevere". (Atti 20:35)

Tratto da libro "L'Esicasmo" di Jean-Ive Leloup
Continua nel prossimo post sull'Ira