2 ottobre 2013

La collera


continua dal post del 16 settembre sull'avarizia.

Meditando sui sette peccati capitali è facile rilevare come essi prendano in considerazione atteggiamenti ed emozioni che sono molto diffusi tra gli esseri umani, comportamenti così comuni da essere considerati normali, banali. Nessuno più considera peccato o vizio una cosa comune come l'ira e quindi nessuno fa degli sforzi di osservazione per correggersi. 
Come già ho spiegato in precedenza, se non siamo sotto la tutela di Dio, qualcun altro ci prende in custodia e guida le nostre azioni costantemente. Se siamo nel mondo e del mondo, la gola, l'attaccamento alle cose materiali, la vanità o l'ira sono atteggiamenti giustificabili sui quali non vale molto la pena di soffermarsi. 

Spero che nessuno abbia frainteso il mio interesse per il pensiero dei Padri della Chiesa riguardo ai peccati capitali: non sono un bigotto moralista o un religioso integralista. Tuttavia sono sicuro che ognuno di noi, vivendo nel mondo, si sia totalmente impregnato dello spirito di queste passioni che vengono dai Padri definite come malattie dell'anima; credo quindi che dobbiamo stare attenti a non sottovalutare l'argomento come fanno tutti.          




"Orgé", (ργή) è il termine greco che viene generalmente tradotto con collera o impazienza; nel linguaggio biblico si parla di "Qesor 'appaim" che significa letteralmente "brevità di respiro". In effetti la collera ci fa perdere il fiato, il respiro si fa affannoso, l'uomo soffoca, è come "posseduto". Da un temperamento sano ed equilibrato emana un gradevole calore, ma, punto sul vivo, questo calore diventa incandescente. E' la collera che "fa bollire il sangue" come dice Evagrio. Lui attribuì molta importanza al fenomeno della collera; secondo Evagrio la collera sfigura la natura umana e rende l'uomo simile a un demonio.
E' un'energia prodigiosa che, da una situazione di stasi, viene messa in movimento da qualche causa scatenante. Ecco perché diciamo che esistono delle collere "giuste" e "sante" - l'indignazione davanti a un'ingiustizia, ad esempio - mentre esistono collere che sono devastanti e perverse. L'energia negativa che si produce nella collera rabbiosa è una delle passioni più pericolose che esistano. L'uomo è letteralmente "fuori di sé" e perde tutti i caratteri della propria rassomiglianza con Dio. L'individuo sfigurato dalla collera perde ogni capacità di discernimento o di saggezza.

L'origine di tale disastro si trova nell'insoddisfazione profonda dell'essere che non può più essere contenuta. L'aggressività continua del collerico, la sua irritabilità e il suo risentimento verso tutti, non sono altro che sintomi di un qualcosa di non risolto...potremmo dire di non digerito. E infatti negli individui collerici gli organi della digestione sono i più soggetti a disturbi e malattie. La collera rovina il fegato ed eccita la bile e diventa poi particolarmente pericolosa se è una collera soffocata, non manifestata: può portare facilmente all'ulcera.

I Padri dicevano che non si può vincere la collera se non si decide di attaccare le radici del male; le armi con cui ingaggiare la lotta sono la dolcezza e il perdono. La dolcezza consiste nell'essere sereni anche nelle prove peggiori. Si tratta di mantenere calma e fiducia anche quando l'evidenza dei fatti ci induce al pessimismo. Questa serenità di fondo mette in fuga la confusione e ci permette di vedere la situazione nei suoi lati positivi e negativi.

Perdonare l'altro significa volere il suo bene, desiderare la sua crescita in pienezza. Ma il collerico deve perdonare anzitutto se stesso. Infatti, chi è in preda del demone della collera sovente non si è riconciliato con i propri errori e non ha  ancora accettato di essere una creatura fragile e limitata come tutti. Perdonare se stessi è accogliere il perdono di Dio. Il bene più grande che si possa fare a una persona è far scendere su di lei la benedizione di Dio: "Benedite, non maledite!" dice Gesù. Perdonare è rendere il bene per il male ricevuto. Bisogna benedire e non giudicare.

Accogliere il perdono di Dio significa accettare di perdonare il fratello. La potenza della benedizione di Dio scende allora fin nelle profondità del nostro spirito, là dove giacciono i nostri traumi irrisolti. Il conflitto potrà anche essere antico e le radici del nostro odio ormai indurite dal tempo, ma la potenza di questa benedizione divina sradica ogni rancore.

"Che il sole non tramonti sulla vostra ira" (Efesini 4:26); è probabile che gli antichi monaci, prima di coricarsi la sera, prima di perdonare i loro nemici, si dessero a qualche esercizio respiratorio, insistendo sull'espirazione per scacciare ogni pensiero di collera.
La grande qualità del monaco, secondo Evagrio, è la dolcezza, ossia l'opposto dell'ira. E' ciò che distingueva Mosè o Gesù dagli altri uomini. Una dolcezza che non era languore o debolezza, bensì manifestazione della perfetta padronanza dello spirito santo sulla parte irascibile dell'essere, sempre pronta a irritarsi. Vi è una dolcezza transpersonale che è più di una semplice gentilezza di carattere: è il riflesso dell'armonia, di tutte le facoltà fisiche e psichiche dell'uomo.

continua nel prossimo post sui vizi capitali: "Lupé"